LA MISTERIOSA EPIFANIA DI ANGELO FIORE
di Marcello Benfante
Per cominciare, vorrei dire una cosa che forse ad alcuni sembrerà assurda o perfino scandalosa.
La ragione ultima e vera per cui amiamo così tanto Angelo Fiore rimane per ciascuno di noi un mistero.
Un mistero a posteriori, s’intende, ché d’acchito la rivelazione del capolavoro è lampante, priva di dubbi o di remore.
Per me l’epifania fu la scoperta folgorante de “Il supplente” in una edizione Pungitopo del 1987 con una illuminante introduzione di Natale Tedesco, su cui scrissi un articolo su una rivistina da me fondata e diretta (“Scrittori si muore” in Casba, n. 1, prima serie, Novembre 1987).
Nonostante questa illuminazione e fascinazione, il mistero rimase e forse s’infittì. Certamente divenne più intrigante e allettante.
Tutta la grande letteratura è d’altronde un mistero.
Mistero insondabile dalla stessa critica, che in sostanza si limita per lo più a perlustrarne i contorni senza mai (o quasi mai) riuscire a penetrarne il cuore.
Mistero, peraltro, che va salvaguardato dagli eccessi esegetici, anche (e forse soprattutto) dai più raffinati intenti interpretativi, che rischiano sempre di fugarlo, dissolvendo con esso il fascino segreto del testo letterario.
Ma su questo mi è già capitato in passato (proprio riguardo a Fiore e in contesto analogo) di fare qualche piccola osservazione.
Vorrei quindi ribadire soltanto che Angelo Fiore è tanto più amabile quanto più è misterioso e inattingibile. Perfino ineffabile.
Il che ovviamente non ci esime né tanto meno ci impedisce di cercare di capirlo e scrutarlo sempre più in profondità.
Angelo Fiore è uno scrittore di complessa semplicità. Lontanissimo, nella sostanza, dalle avanguardie. La sua prosa si adagia su una lingua piuttosto disciplinata e ordinaria, salvo taluni arcaismi e termini desueti che ne rivelano la viscerale alterità, e su una struttura narrativa (o anti-narrativa) monotona e ripetitiva (con qualche secondaria variazione).
Come nota acutamente Miriam Rita Policardo nel suo studio sull’opera di Angelo Fiore: “Privo di forzature grammaticali, di fusioni di parole, di infrazioni nell’ordine sintattico, il furore espressionista di Fiore è tematico, non linguistico, sostanziale più che formale, generato dall’assenza del paesaggio, dalla logorrea e dall’acrimonia speculativa di ogni singolo personaggio”.
La voce di Fiore risuona su un palcoscenico vuoto. Né tale voce si organizza in una vera e propria trama, ché una trama presupporrebbe una cronologia, condizione estranea alla narrazione sospesa, nello spazio e nel tempo, dello scrittore palermitano.
Insomma, quella di Fiore è una scrittura, per usare la formula che dà il titolo al bel saggio di Miriam Rita Policardo, sospesa tra inerzia ed evoluzione.
Cioè tra una fondamentale e tenace inerzia dell’uomo e della storia umana e una inesorabile progressione verso il fallimento esistenziale.
L’inerzia non manca di sviluppi tormentosi così come l’evoluzione, con il suo andamento precipitoso, votato allo smacco, si limita in ultima analisi a confermare la stasi iniziale da cui vanamente era sortita.
Questo doppio falso movimento si ripete ossessivamente in ogni opera di Angelo Fiore, o pressoché, senza tuttavia mai venirci a noia né mai cessare di ammaliarci, anche mediante l’orrore e la guitteria, il grottesco e lo sconcio.
Ad avvincerci è in primo luogo la sua fatale e drammatica verità. Verità ineludibile e destino irriformabile, che Miriam Rita Policardo espone nella sua lucida e precisa analisi: analisi rigorosa che presenta inoltre alcuni interessanti aspetti innovativi (si pensi, per esempio, al rapporto tra l’opera di Fiore e il dadaismo, o ancora, in una qualche misura, il collegamento con l’anti darwinismo di Svevo).
L’andamento statico delle narrazioni di Fiore è sottomesso a un radicale e inestirpabile pessimismo.
Nell’inerzia del soggetto desiderante che attende immobile un evento salvifico, subentra il teatro di ombre e di voci che popola il suo delirio, la famiglia parodica e grottesca che attenta e corrompe la sua ricerca d’assoluto, l’ordine burocratico che lo illude e lusinga con le sue procedure e gerarchie, la magia che in forme mimetiche e mistificanti si propone surrettiziamente come succedaneo fittizio dell’esperienza religiosa.
Nella compatta opera di Fiore, questi punti nodali sono un repertorio che si ripete con pressoché minime variazioni, dando senso, un senso demente e straziato, a una cognizione del dolore e a una forma di nichilismo istrionico che non prevede né memoria né volontà, né azione né sensazione, ma una sorta di distruttiva “controcreazione” al di là del bene e del male.
E quindi forse potrei concludere, a titolo puramente soggettivo, che il mistero dell’arte di Fiore risiede soprattutto nella sua capacità musicale di mantenere rigorosamente un tono concettuale e metafisico, di concentrarsi su una nota dominante, di vibrazione, di mantra, di om, in cui consiste e coesiste tutto l’uomo e tutto il mondo.
(Palermo, 20 maggio 2022)